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Chiusura dei “campi rom”? Meglio parlare di superamento, con il modello Ma.Rea.
La politica e i media parlano spesso di chiusura dei “campi rom”. Ma davvero distruggere un insediamento è il modo migliore per risolvere il problema delle inaccettabili condizioni in cui tante persone sono costrette a vivere? Non è meglio, invece, ragionare di un superamento di queste baraccopoli, progettando soluzioni abitative dignitose?
L’Italia è la Nazione europea che ha investito di più nella progettazione, realizzazione e gestione dei cosiddetti “campi rom”, tanto da guadagnarsi l’appellativo di “paese dei campi”. Ce ne sono ancora quasi 100, in cui vivono oltre 10mila persone, in maggioranza bambini e ragazzi. Una presenza così diffusa e discussa da essere percepita come inevitabile. Ma è invece possibile immaginare un paese senza “campi rom”? Sì, certo. Gli insediamenti etnici possono e devono essere superati, perché sono un luogo di segregazione e deprivazione. Molte amministrazioni pubbliche ci hanno provato e ci sono riuscite, altre stanno intraprendendo ora questa strada. È importante, però, anche come lo si fa, perché c’è una grande distanza tra il concetto di chiusura dei “campi rom” e quello di loro superamento.
“Campi rom” chiusi, l’eterno ritorno di una promessa elettorale
La chiusura dei “campi rom” è uno dei ritornelli bipartisan della politica italiana. Il tema è una presenza immancabile nelle campagne elettorali per le elezioni amministrative delle città in cui la presenza di rom e sinti è più numerosa. Si potrebbe dire, con un po’ di ironia, che i politici locali (e non solo), di destra e di sinistra, desiderano chiudere gli insediamenti che accolgono i “nomadi” (altro termine non corretto di cui media e politica abusano) fin dal giorno in cui sono stati istituiti per legge (peraltro creando un unicum nel panorama europeo, che ha fatto meritare all’Italia l’appellativo di Paese dei campi). Al di là della scarsa attendibilità di una promessa elettorale che si ripete identica in ogni occasione, il problema di parlare di chiusura dei “campi rom” è più radicale, strutturale. Le parole, infatti, sono importanti e l’uso di un termine al posto di un altro svela molto delle intenzioni di chi lo utilizza. In questo senso, chiudere un insediamento dà l’idea di un’azione fine a sé stessa, che inizia e finisce con una dimostrazione di forza. Il “campo rom” è stato chiuso, e poi? Il problema delle condizioni di vita di chi ci abitava può dirsi risolto? Sono state previste soluzioni alloggiative alternative, magari di tipo tradizionale? Si è strutturato un percorso di inclusione? Spesso e volentieri, la risposta a queste domande è no: la chiusura dell’insediamento è il traguardo, non un mezzo per arrivare a un risultato più umano. Ed è così che una questione non risolta definitivamente tende a riproporsi: gli abitanti dell’insediamento ormai chiuso si disperdono, si riorganizzano e magari fanno rinascere un nuovo campo (o tanti nuovi campi) altrove.
La genesi dei “campi rom” in Italia
Superare gli insediamenti rom e sinti con il modello Ma.Rea.
Meglio, quindi, parlare di superamento, e darsi un orizzonte davvero definitivo e compiuto. Come Associazione 21 luglio abbiamo messo a punto un efficace strumento per il superamento dei “campi rom”, che è a disposizione di tutte le amministrazioni pubbliche. È il modello Ma.Rea. – Mappare e Realizzare Comunità, diviso in 6 fasi e 16 azioni. Un modello innovativo che si regge su tre pilastri:
- abbandonare l’approccio etnico;
- favorire la partecipazione dei diretti interessati;
- fare leva sulle interazioni tra il singolo e il sistema sociale a cui appartiene.
Di seguito, le fasi nel dettaglio.
Fase 1 – La comunità locale
I “campi rom” non sono tutti uguali, anche quando si trovano nella stessa città. Ogni insediamento ha caratteristiche e bisogni specifici che solo chi ci vive e ci opera conosce davvero. Quindi, per trovare soluzioni efficaci a problemi profondi è indispensabile mettersi in ascolto di queste comunità, dialogare, scambiare fiducia. Mettersi in ascolto, quindi, è l’azione che apre questa prima fase. Attraverso appositi questionari, viene scattata una foto precisa della comunità rom presente nel campo: status giuridico, lavoro, livello di istruzione, condizioni di salute. La seconda azione, invece, guarda fuori dal campo, per mappare, incontrare e sensibilizzare tutte le realtà pubbliche e private, formali e informali, che si muovono a vario titolo attorno all’insediamento. Il risultato finale di questa prima fase è la costituzione di un Gruppo di Azione Locale, di cui fanno parte i rappresentati della comunità rom e quelli delle realtà incluse nella mappatura.
Fase 2 – Il Gruppo di Azione Locale
Superare i “campi rom”, come anticipato, significa agire in modo sistemico, coinvolgendo tutti gli interessati in un progetto corale che attraversa le vite di tutti e non passa sopra la testa di nessuno. Il Gruppo di Azione Locale, composto da figure leader dell’insediamento e dagli stakeholders, serve proprio a questo. Il Gruppo è il luogo privilegiato dove, in un rapporto non gerarchico, istituzioni e comunità locali possono elaborare politiche inclusive per le persone che vivono la segregazione abitativa estrema dell’insediamento. Ha il compito di fissare obiettivi misurabili, tempi, strumenti, costi e procedure per l’attuazione degli interventi. Inoltre, individua in maniera chiara le responsabilità e stabilisce forme di coordinamento tra i diversi settori dell’amministrazione interessati dalle azioni e tra l’amministrazione e gli altri enti chiamati in causa. Quindi, dopo un percorso che può durare tra i 3 e i 6 mesi, il Gruppo presenta una prima bozza di Piano di Azione Locale da sottoporre alla Pubblica Amministrazione.
Fase 3 – Il Piano di Azione Locale
Il superamento di un “campo rom” in maniera strutturale e definitiva è un progetto complesso, che deve essere condiviso e pianificato attentamente. Non a caso, il cuore del modello Ma. Rea. è proprio il Piano di Azione Locale, che prevede interventi di breve, medio e lungo periodo. I primi possono essere realizzati subito, dalla comunità beneficiaria o dall’Amministrazione comunale. I secondi sono affidati all’Amministrazione comunale. Mentre gli ultimi possono rientrare in finanziamenti statali o europei. Ogni “campo rom”, ovviamente, ha bisogno di un suo Piano di Azione, che sia personalizzato e non standardizzato. L’unico elemento ricorrente sono i pilastri su cui il Piano di fonda: prendere in carico tutte le famiglie del campo e condividere con loro tutti i passaggi, elaborare interventi di inclusione sociale complessi, predisporre un ventaglio di offerte abitative e individuare i fondi necessari a garantire la continuità delle risorse. Una volta redatto, il Piano di Azione Locale deve essere discusso e approvato dalla giunta o dal consiglio comunale.
Fase 4 – Finanziare e realizzare
Con la Fase 4, si passa l’operatività, che significa reperire i fondi e promuovere le azioni in concreto. Per questo motivo, questa quarta fase si chiama “Finanziare e realizzare” ed è affidata a un coordinatore delegato dal sindaco e a una task force comunale multidisciplinare. In questa fase, però, è indispensabile il coinvolgimento proattivo dei beneficiari, per garantire la sostenibilità dell’intervento. E sempre in ottica di sostenibilità ed efficienza, è preferibile iniziare ad agire rafforzando i servizi già esistenti piuttosto che crearne di nuovi. Un esempio concreto è quello che riguarda il reperimento di nuove abitazioni. Se alcune famiglie hanno difficoltà a seguire le procedure per l’accesso all’edilizia residenziale pubblica, è poco produttivo attivare per loro servizi di sostegno ad hoc, come un bonus affitto. Meglio, invece, supportarle nella presentazione della domanda per la casa popolare.
Fase 5 – Campagna comunicativa
Come accennato in apertura, in Italia, dire pubblicamente che i “campi rom” possono e devono essere superati è impossibile. Per la politica il tema è tabù, una questione da trattare superficialmente, armandosi di slogan vuoti, senza alcun riferimento a dati e analisi. Questo atteggiamento mina alle fondamenta la stessa possibilità di riuscita di qualsiasi tentativo. L’ineluttabilità dei “campi rom” è una profezia che si autoavvera, perché nessun processo di superamento può avvenire senza costruirvi intorno il consenso dei cittadini. Ecco perché la comunicazione è parte integrante del modello Ma.Rea. Serve un capillare e continuo lavoro di narrazione, nella consapevolezza che le condizioni di vita degradanti in cui vivono i rom non sollevano immediatamente reazioni di solidarietà ed empatia, ma anzi producono diffidenza, sospetto, ostilità. Bisogna raccontare il lavoro passo dopo passo, organizzare momenti pubblici che spieghino il valore dell’intero processo. Occorre soprattutto una campagna di comunicazione che capovolga il punto di vista, che cambi completamente le carte in tavola, spingendo a riflettere sul vantaggio collettivo che il superamento delle baraccopoli garantisce.
Fase 6 – Monitoraggio e sostenibilità
Quando si ha a che fare con le vite delle persone, è necessario guardare orizzonti di lungo periodo, coltivando progetti capaci di durare nel tempo e di essere sostenibili. Quindi, giungere al superamento di un “campo rom” e assicurare l’accesso delle famiglie alle strutture abitative non esaurisce l’impegno necessario. Serve monitorare gli esiti di quel lavoro e continuare a seguire le famiglie anche dopo l’ingresso nella nuova casa, per valutare l’effettivo inserimento sociale e per capire in che misura l’intervento lo abbia favorito. Ed è quello che avviene nell’ultima fase del progetto Ma.Rea. Il monitoraggio è fondamentale per almeno due ragioni. Da una parte, fornisce alle Amministrazioni locali informazioni sull’efficacia dell’intervento attuato. Dall’altra, mette in luce le eventuali criticità, che possono essere affrontate tempestivamente, elaborando, in accordo con le famiglie coinvolte, strategie alternative a quelle programmate. Inoltre, in questo passaggio conclusivo, al lavoro di monitoraggio viene aggiunta una valutazione d’impatto sociale per misurare i risultati diretti sulla comunità che vive negli insediamenti e quelli indiretti riferiti alle aree limitrofe.
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