Secondo la infelice ma puntuale definizione coniata nel 2000 dall’European Roma Rights Centre, l’Italia, nel panorama europeo, può essere definita il “Paese dei campi” perché la Nazione impegnata, più degli altri, nella progettazione e nella gestione di ghetti etnici riservati a cittadini identificati come rom o sinti.
Il nostro Paese non dispone di strumenti per conoscere il numero delle persone rom e sinte residenti sul territorio. È invece possibile ricavare, grazie al lungo lavoro di monitoraggio promosso da Associazione 21 luglio, quello di quanti vivono nelle 106 aree, all’aperto o al chiuso, in parte assimilabili per condizioni sociosanitarie alle baraccopoli, in parte a macroaree, storicamente riconosciute e, in molti casi, organizzate dalle istituzioni su base etnica, perché abitate da famiglie identificate come rom o sinte.
Nella mappa che segue sono inclusi, in apposite sezioni, gli insediamenti in superamento e quelli chiusi dal 2018 al oggi.
Sono invece esclusi i seguenti casi: gli insediamenti ubicati su proprietà private appartenenti ai medesimi soggetti che vi risiedono, gli insediamenti informali caratterizzati da una presenza transitoria di circa 2.000 individui di etnia rom; le microaree pubbliche situate in Emilia-Romagna, nelle quali risultano residenti circa un migliaio di sinti nonché le occupazioni di immobili, sia a composizione etnica mista che monoetnica.
I campi rom/sinti nascono come luoghi di “tutela culturale”, a causa dell’equivoco secondo cui rom e sinti sarebbero detentori di una tradizione fondata sul nomadismo, con il conseguente rifiuto di vivere in abitazioni convenzionali. In realtà l’assioma “rom/nomade”, anche se fatto proprio dall’immaginario collettivo, appare oggi totalmente infondato.
A partire dagli anni Settanta – quando già nelle periferie delle città del Nord si registravano piccoli accampamenti di comunità sinte e di rom istriani e nel Sud, in prossimità delle fiumare, insediamenti di rom italiani di antico insediamento – si osservò il primo flusso di rom provenienti dall’ex Jugoslavia che negli anni successivi si andrà intensificando raggiungendo il numero di circa 45.000 persone.
Dal 1985 diverse Regioni italiane, al fine di governare il fenomeno, promossero azioni legislative volte a “salvaguardare il patrimonio culturale e l’identità rom”, raccomandando e finanziando la costruzione di “riserve etniche” denominate impropriamente “campi nomadi”.
Ad inizio degli anni Novanta si registrò la nascita del campo di Masini, in provincia di Firenze; del campo san Ranieri, a Messina; dell’insediamento di Salviati, inaugurato a Roma dalla Giunta guidata da Francesco Rutelli. Lo stesso accade a Milano, Torino, Napoli, Treviso e Brescia.
Negli anni 2000, con l’ingresso della Romania e della Bulgaria nell’Unione Europea, anche alle famiglie rom rumene, già in fuga dalle persecuzioni del dopo Ceausescu, vennero aperte le porte dei “campi nomadi”. Per i rom italiani di antico insediamento, invece, si andarono realizzando nel Sud Italia quartieri di edilizia residenziali pubblica riservati secondo un preciso criterio etnico.
Dentro e fuori ogni insediamento si muovono comunità di persone.
MAppare e REAlizzare comunità è il cuore del progetto MA.REA. curato e promosso da Associazione 21 luglio.
Associazione 21 luglio (www.21luglio.org) è un’organizzazione indipendente che da anni lavora nell’ambito delle periferie estreme con uno specifico focus indirizzato alle comunità rom e sinte e alle politiche a loro rivolte. Con il progetto “Ilpaesedeicampi”, nel quale è raccolto il lavoro decennale di mappatura e ricerca dell’Associazione, si intende offrire uno strumento utile e costantemente aggiornato indirizzato a decisori pubblici, rappresentanti politici, insegnanti, ricercatori, giornalisti, attivisti.